Il 23 febbraio la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo, nel caso Hirsi Jamaa e altri, ha condannato all’unanimità l’Italia per violazione dell’art. 3 (doppia), dell’art. 4 Protocollo n. 4, nonché dell’art. 13 (in collegamento con i due articoli precedenti) della CEDU.
Si tratta di una sentenza molto attesa, che ha immediatamente suscitato un giusto clamore mediatico e numerose reazioni politiche.
La sentenza della Grande Camera, che è definitiva, è infatti una di quelle destinate a restare nella memoria.
I fatti da cui il caso traeva origine sono tristemente noti. Il 6 maggio 2009 circa 200 persone, su tre barche dirette in Italia, venivano intercettate da motovedette italiane, in acque internazionali, all’interno della zona “SAR” (Search and Rescue) di responsabilità maltese. Quindi, venivano trasferite a bordo delle navi italiane e riportate in Libia, da dove erano partite, in conformità agli accordi bilaterali fra Italia e Libia.
Tutto questo, senza essere identificate e senza essere informate circa la loro reale destinazione.
Era l’avvio della c.d. “politica dei respingimenti” che, secondo le parole del Ministro dell’Interno italiano dell’epoca, doveva rappresentare un “punto di svolta”nella lotta contro l’immigrazione irregolare.
Nel corso del 2009, l’Italia ha condotto 9 operazioni in acque internazionali, in conformità agli accordi bilaterali con la Libia.
Il caso Hirsi Jamaa e altri è il ricorso di 24 cittadini somali ed eritrei – che facevano parte di quel gruppo di respinti il 6 maggio 2009 – contro l’Italia per la violazione dell’art. 3, dell’art. 4 Protocollo n. 4 e dell’art. 13 (in combinato con i precedenti) CEDU.
A distanza di quasi tre anni da quei fatti, la Corte è giunta, all’unanimità, ad una sentenza netta di condanna dell’Italia. Una sentenza che, se non potrà ridare giustizia a quanti negli anni – certo non solo in quell’occasione e non solo dall’Italia – sono stati intercettati e arbitrariamente respinti, speriamo servirà da indirizzo alle politiche relative al controllo dell’immigrazione in Europa.
La sentenza è molto lunga e interessante e se ne consiglia ovviamente la lettura completa, inclusa l’opinione concordante del giudice Pinto de Albuquerque, che si spinge più in là rispetto alla Corte, e tocca fra l’altro un tema ulteriore, di grande importanza, cioè quello del diritto a lasciare un Paese per cercare asilo.
Di seguito ripercorriamo quelli che a nostro avviso sono i punti principali della sentenza Hirsi Jamaa e altri c. Italia.
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Dopo aver risolto le questioni preliminari sollevate dal governo italiano, la Corte si pronuncia sul tema della giurisdizione. L’art. 1 della CEDU, infatti, prevede che gli Stati contraenti “riconoscono a ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà enunciati nel Titolo primo” della CEDU.Dunque: i fatti di cui si tratta sono avvenuti sotto la giurisdizione italiana?La difesa dello Stato italiano è stata:
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è vero, i fatti si sono svolti su navi militari italiane. Tuttavia, trattandosi di operazione di salvataggio in mare, le autorità italiane hanno esercitato un controllo minimo sui ricorrenti, limitandosi ad assistere le barche in difficoltà e a salvare gli occupanti. Per poi accompagnarli in Libia, in osservanza degli accordi bilaterali fra questo Paese e l’Italia. Dunque mancava un elemento essenziale per aversi giurisdizione: il controllo “assoluto ed esclusivo” sugli individui.La Corte dapprima ricorda i principi generali:
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la giurisdizione di uno Stato è essenzialmente territoriale e, solo in casi eccezionali, atti di uno Stato che siano commessi al di fuori del territorio di quello Stato, possono costituire un esercizio della giurisdizione (par. 71 e 72 della sentenza);
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tuttavia, ogniqualvolta uno Stato eserciti, attraverso suoi agenti che operino al di fuori del suo territorio, controllo e autorità su un individuo, si può parlare di esercizio extra-territoriale della giurisdizione (par. 74)Quindi, la Corte valuta che, nel caso in questione,
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i fatti sono avvenuti in acque internazionali, a bordo di navi militari battenti bandiera italiana, composte da equipaggio esclusivamente italiano; secondo il diritto del mare, una nave in acque internazionali è soggetta all’esclusiva giurisdizione dello Stato di cui batte bandiera. Tale principio si ritrova anche nel Codice della Navigazione italiano. Siamo dunque in presenza di un caso di esercizio extra-territoriale della giurisdizione (par. 77 e 78);
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nel periodo che va da quando i ricorrenti sono saliti sulle barche italiane a quando sono stati consegnati alle autorità libiche, essi erano sotto il continuo ed esclusivo controllo de iure e de facto delle autorità italiane (par. 81); gli eventi in questione ricadono dunque sotto la giurisdizione italiana (par. 82)Dunque, la Corte ribadisce che la responsabilità degli Stati, sebbene in circostanze eccezionali, non è limitata ai loro territori, ma può estendersi oltre, e che, laddove vi sia esercizio di autorità e controllo (quindi giurisdizione), allora dovrà aversi anche analoga responsabilità.2) Violazione dell’art. 3 (per aver esposto i ricorrenti al rischio di trattamenti inumani o degradanti in Libia)Il governo italiano si è difeso così dall’accusa di aver esposto, tramite il respingimento, i ricorrenti a trattamenti proibiti in Libia:
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i ricorrenti non hanno provato di esser stati sottoposti a tali trattamenti;
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i trasferimenti sono avvenuti sulla base degli accordi bilaterali Italia-Libia, siglati nel 2007 e 2009 in risposta ai crescenti flussi migratori;
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le istituzioni dell’UE hanno a più riprese incoraggiato la cooperazione fra Paesi del Mediterraneo per controllare l’immigrazione;
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si trattava di un’operazione di salvataggio in acque internazionali, dunque non era necessario identificare le parti coinvolte, in quanto le autorità si sono limitate a prestare assistenza;
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i ricorrenti non hanno mai espresso la loro intenzione di chiedere asilo;
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la Libia era all’epoca un Paese sicuro, firmatario di numerosi trattati internazionali sui diritti umani.Dopo aver ripetuto i principi generali sulla responsabilità degli Stati nei casi di espulsione, la Corte applica tali principi al caso di specie, smontando pezzo per pezzo la difesa italiana.In particolare, la Corte afferma che:
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è ben consapevole delle difficoltà che gli Stati incontrano relativamente al fenomeno dell’immigrazione via mare; tuttavia, la proibizione di cui all’art. 3 CEDU è assoluta e dunque gli Stati non possono ignorare i propri obblighi invocando tali difficoltà (par. 122);
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i report che descrivevano una situazione terribile in Libia per gli immigrati irregolari e il mancato rispetto da parte di quello Stato di ogni regola in materia di protezione dei rifugiati erano numerosi al tempo in cui i fatti si sono svolti (par. 123 e 125);
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l’esistenza di norme interne o la ratifica di trattati internazionali in materia di diritti umani non sono di per sé sufficienti ad assicurare una protezione adeguata contro il rischio di maltrattamenti, nel caso in cui da fonti affidabili emerga che pratiche manifestamente contrarie ai principi della CEDU siano state messe in atto o tollerate dalle autorità (par. 128);
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l’Italia non può venir meno ai suoi obblighi sulla base di accordi bilaterali – come quello con la Libia – che certo non incidono sulle responsabilità degli Stati contraenti della CEDU (par. 129);
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ciò a maggior ragione, considerato che la situazione era ben conosciuta e facile da verificare, per cui le autorità italiane sapevano o dovevano sapere a cosa andavano incontro i migranti rinviati in Libia (par. 131);
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né l’Italia può difendersi affermando che nessuno dei ricorrenti ha richiesto asilo. Davanti a una situazione così chiara di sistematica violazione dei diritti umani, era compito delle autorità nazionali verificare il trattamento a cui sarebbero stati esposti i ricorrenti, una volta riconsegnati alle autorità libiche, a prescindere da una concreta richiesta di asilo (par. 133).Dunque, la Corte ribadisce che la proibizione di cui all’art. 3 CEDU (“Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”)è assoluta. Non possono esistere né accordi bilaterali, né circostanze eccezionali, che facciano venir meno le responsabilità degli Stati contraenti a questo riguardo. Nel valutare la situazione nello Stato di destinazione, poi, non ci si può fermare alla “carta”, cioè alla sottoscrizione di impegni internazionali o all’esistenza di leggi nazionali, ma occorre verificare la realtà sul campo. E nel farlo, grande importanza rivestono i report di affidabili organizzazioni non governative o internazionali.3)Violazione dell’art. 3 (per aver esposto i ricorrenti al rischio di essere rinviati nei rispettivi Paesi di origine)La difesa dello Stato italiano fa ancora affidamento sul fatto che la Libia è firmataria di numerosi Trattati internazionali sulla protezione dei diritti umani. La presenza dell’UNHCR in Libia costituiva poi una garanzia a questo riguardo.La Corte ricorda il principio generale sul c.d. “refoulement” indiretto:
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in caso di espulsione, uno Stato ha l’obbligo di assicurarsi che lo Stato dove rinvia un individuo offra garanzie sufficienti circa il fatto che non procederà ad un ulteriore rinvio di questi verso il suo Paese di origine, senza una valutazione del rischio di subire trattamenti proibiti (par. 146 e 147).Quindi, venendo al caso di specie:
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la situazione in Somalia ed Eritrea, i Paesi di origine dei ricorrenti, continua ad essere estremamente insicura, come dimostrato da tutte le informazioni a disposizione della Corte (par. 151);
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la Libia non ha ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951 e numerosi osservatori internazionali hanno sottolineato l’assenza in quel Paese di qualunque procedura di asilo. Né la presenza dell’UNHCR poteva considerarsi una garanzia sufficiente, considerato che le autorità libiche non attribuivano alcun valore allo status di rifugiato (par. 152 e 153); anzi, numerosi rimpatri forzati di migranti, inclusi rifugiati, erano stati denunciati da Human Rights Watch e UNHCR (par. 154)
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pertanto, l’Italia sapeva o avrebbe dovuto sapere che c’erano garanzie insufficienti riguardo al rischio che i ricorrenti fossero arbitrariamente rinviati nei loro Paesi di origine (par. 156) e avrebbe dovuto verificare come le autorità libiche rispettassero i loro obblighi internazionali nei confronti dei rifugiati (par. 157)4) Violazione dell’art.4 Protocollo n.4 (“Le espulsioni collettive di stranieri sono vietate”)Si tratta della parte più innovativa, e forse per questo più interessante, della sentenza, in quanto la Corte, per la prima volta, era chiamata a decidere se il divieto di espulsionicollettivesi applichi anche a casi di rinvio verso Paesi terzi avvenuti al di fuori del territorio nazionale.Detto altrimenti: se le persone, ancor prima di arrivare sul territorio di uno Stato, sono rinviate dalle autorità di quest’ultimo verso un Paese terzo, siamo in presenza di un caso di espulsione?La difesa dello Stato italiano si era basata essenzialmente su questo: nel caso di specie, siamo in presenza di un rifiuto di autorizzare l’ingresso, non di un’espulsione.La Corte ricorda come la Convenzione sia uno “strumento vivo”, che va interpretato alla luce delle condizioni attuali e in maniera da rendere le sue garanzie concrete ed efficaci, non illusorie (par. 175).Lo scopo dell’art. 4 Protocollo n. 4 è quello di impedire agli Stati di espellere degli stranieri senza esaminare le loro circostanze personali.Considerato che, al giorno d’oggi, gli Stati fanno sempre maggior ricorso agli intercettamenti in mare e al rinvio dei migranti verso i Paesi di origine o di transito come strumento di controllo dell’immigrazione, se l’interpretazione dell’art. 4 Protocollo n. 4 si limitasse a casi di espulsione collettiva dal territorio di uno Stato, la sua tutela sarebbe inefficace verso un numero crescente di situazioni che compongono il quadro odierno delle migrazioni. (par. 176 e 177)Quanto all’applicazione di questi principi al caso in questione, considerate le modalità in cui si è svolta l’intera operazione, la Corte non ha dubbi nel ritenere che non vi sia stata alcuna forma di esame delle situazioni individuali.5) Violazione dell’art. 13 in combinato con l’art. 3 e l’art. 4 Protocollo n.4L’art. 13 richiede l’esistenza di un rimedio interno capace di esaminare la sostanza di un ricorso per supposta violazione della CEDU e di garantire una giusta riparazione. Tale rimedio deve essere “effettivo“. E per essere considerato tale dalla Corte, almeno quando riguardi una possibile violazione dell’art. 3 CEDU, tale rimedio deve consistere in uno “scrutinio rigoroso e indipendente” e prevedere la possibilità di sospenderel’applicazione della misura impugnata (par. 198).Applicando tale principio al caso di specie, la Corte giunge alla conclusione che i ricorrenti sono stati privati della possibilità di far valere le proprie ragioni davanti a un’autorità competente prima che la misura di respingimento fosse eseguita. (par. 205)
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