Il 7 novembre la Corte di Giustizia dell’Unione europea (Quarta Sezione) ha emesso una sentenza molto attesa e importante che nelle prossime righe cerchiamo di analizzare.
Si trattava di tre cause riunite (X, Y e Z; C-199/12, C-200/12, C-201/12), aventi ad oggetto l’interpretazione della Direttiva Qualifiche (e in particolare dell’art. 9 paragrafo 1 lett. a, in combinato disposto con l’art. 9 paragrafo 2, lett. c e l’art. 10 paragrafo 1, lett. d).
La richiesta di pronuncia pregiudiziale era stata avanzata dal Consiglio di Stato olandese nell’ambito di tre controversie aventi ad oggetto la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato avanzata da altrettante persone (originarie dell’Uganda, della Sierra Leone e del Senegal) sulla base delle persecuzioni che temevano di subire nei rispettivi Paesi in ragione della loro omosessualità.
In tutti e tre i Paesi l’omosessualità è perseguita penalmente e le pene previste comportano la detenzione che in certi casi, in Sierra Leone e in Uganda, può arrivare fino all’ergastolo, mentre in Senegal può arrivare fino a 5 anni.
Le domande di asilo, rifiutate in prima istanza, arrivavano attraverso percorsi differenti fino al Consiglio di Stato, il quale sospendeva il giudizio e sottoponeva alla Corte di Giustizia le seguenti questioni pregiudiziali:
La prima questione
Il giudice del rinvio chiede qui, sostanzialmente, se le persone omosessuali costituiscano un “determinato gruppo sociale” ai fini dell’ottenimento dello status di rifugiato.
La Corte ricorda che, ai fini di considerare un gruppo come “determinato gruppo sociale”, devono sussistere – cumulativamente, non alternativamente – due condizioni:
1) i membri di tale gruppo condividono una caratteristica innata o una storia comune che non può essere mutata oppure condividono una caratteristica o una fede che è così fondamentale per l’identità o la coscienza che una persona non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi;
2) tale gruppo deve possedere un’identità distinta nel paese di cui trattasi, perché vi è percepito come diverso dalla società circostante.
La Corte, a tale riguardo, ritiene pacifico che l’orientamento sessuale di una persona sia una caratteristica così fondamentale per la sua identità che essa non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi (par. 46 della sentenza). Altresì, ritiene la Corte che l’esistenza, nel Paese di origine, di una legislazione penale come quella esistente nei Paesi in oggetto, che riguarda in modo specifico le persone omosessuali, “consente di affermare che tali persone costituiscono un gruppo a parte che è percepito dalla società circostante come diverso” (par. 48)
Terza questione
La Corte passa quindi ad esaminare direttamente la terza questione, prima della seconda.
Qui il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se il mero fatto di qualificare come reato gli atti omosessuali e di prevedere una pena detentiva costituisce un atto di persecuzione.
La Corte ritiene che “la mera esistenza di una legislazione che qualifica come reato gli atti omosessuali non può essere ritenuta un atto che incide sul richiedente in maniera così rilevante da raggiungere il livello di gravità necessario per ritenere che detta qualificazione penale costituisca una persecuzione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva.” (par. 55)
Al contrario, “[l]a pena detentiva comminata da una disposizione legislativa che, come quelle di cui ai procedimenti principali, sanziona gli atti omosessuali può invece, di per sé, costituire un atto di persecuzione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva, purché essa trovi effettivamente applicazione” (par. 56)
Insomma, secondo i giudici di Lussemburgo, è solo l’applicazione della pena detentiva, non la sua minaccia né la mera qualificazione come reato degli atti omosessuali, a poter costituire un atto di persecuzione ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato. Pertanto, spetterà ai giudici nazionali verificare se, “nel paese di origine del richiedente, la pena detentiva prevista da una siffatta legislazione trovi applicazione nella prassi” (par. 59)
Seconda questione
Venendo poi alla seconda questione, che contiene tre sotto-questioni, la Corte parte con l’analizzare le prime due (a e b).
Qui il giudice del rinvio sostanzialmente chiede alla Corte se possa essere ragionevole attendersi che, per evitare la persecuzione, un richiedente asilo nasconda la propria omosessualità nel suo Paese di origine o se possa comunque attendersi che sia riservato nell’espressione del suo orientamento sessuale.
La Corte è molto netta nel negare entrambe tali possibilità, in analogia con quanto già deciso nella sentenza Y e Z (C-71/11 e C-99/11), da noi analizzata qui.
La Corte innanzitutto sottolinea come il legislatore dell’Unione abbia inteso escludere dall’applicazione della Direttiva Qualifiche solo gli atti penalmente rilevanti ai sensi del diritto interno degli Stati membri. Al di fuori di questi casi, non esistono dunque atti o espressioni legati all’orientamento sessuale che siano esclusi dall’ambito di applicazione della Direttiva. (par. 67)
Né la Direttiva prevede limitazioni quanto all’atteggiamento che i richiedenti asilo possano adottare per evitare, nel loro Paese di origine, una persecuzione.
Quanto, in particolare, alla possibilità di nascondere la propria omosessualità, i giudici di Lussemburgo si esprimono così:
“[i]l fatto di esigere dai membri di un gruppo sociale che condividono lo stesso orientamento sessuale che nascondano tale orientamento è contrario al riconoscimento stesso di una caratteristica così fondamentale per l’identità che gli interessati non dovrebbero essere costretti a rinunciarvi.” (par. 70)
“Non è pertanto lecito attendersi che, per evitare la persecuzione, un richiedente asilo nasconda la propria omosessualità nel suo paese d’origine. “ (par. 71)
Per quanto riguarda poi la possibilità di attendersi riservatezza nell’espressione di un orientamento sessuale, la Corte ricorda come come ciò che rileva, nella valutazione della fondatezza o meno del timore di persecuzione, sia l’entità del rischio che corre l’interessato. E tale valutazione deve fondarsi unicamente sull’esame dei fatti e delle circostanze. (par. 73) Da nessuna parte nella Direttiva Qualifiche si dice che può essere presa “in considerazione la possibilità che il richiedente avrebbe di evitare un rischio di persecuzione, in particolare dando prova di riservatezza nell’esprimere un orientamento sessuale che egli vive in quanto membro di uno specifico gruppo sociale” (par. 74).
Avendo dato risposta negativa alle sotto-questioni a) e b), la Corte non ritiene di dover rispondere alla sotto-questione c), anche se – sempre in analogia con la sentenza nelle cause riunite Y e Z – i giudici di Lussemburgo affermano che, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, non è possibile operare una distinzione tra atti che formerebbero parte di un nucleo essenziale dell’espressione di un orientamento sessuale e atti che non riguarderebbero tale nucleo. (par. 78)
Queste dunque le risposte della Corte alle domande pregiudiziali del Consiglio di Stato olandese: