Pubblichiamo oggi l’analisi di una recentissima sentenza della Corte di Giustizia UE in materia di asilo. Stiamo parlando della sentenza Shepherd (C-472/13, pubblicata il 26 febbraio 2015), di interpretazione dell’articolo 9, paragrafo 2, lett. b), c) ed e) della direttiva qualifiche (direttiva 2004/83/CE, ora rifusa nella direttiva 2011/95/UE) e in particolare riguardante la definizione di determinati atti come “atti di persecuzione” ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato a un disertore.
Come di consueto, pubblichiamo nelle righe che seguono una breve sintesi della sentenza, rimandando al nostro sito chi volesse scaricare l’intera analisi.
Con riferimento alle prime sette questioni pregiudiziali relative alla lett. e) dell’art. 9, paragrafo 2 la Corte di Giustizia chiarisce i seguenti punti fondamentali:
i) quali categorie di persone appartenenti alle forze armate siano tutelate dalla norma in esame: si deve concludere che la fattispecie ivi prevista si applica a tutto il personale militare, compreso il personale logistico e di sostegno; ii) se i crimini o reati discendenti dalla prestazione del servizio militare nel corso di un conflitto, debbano essere indotti o obbligati, “prevalentemente o in modo sistematico”, o se siano sufficienti singoli ordini operativi criminosi. Sul punto la Corte specifica che deve prendersi in considerazione “in modo oggettivo il contesto generale in cui tale servizio è prestato”; perciò, non è necessario dimostrare il coinvolgimento diretto del richiedente nella commissione dei fatti, essendo sufficiente anche una sua partecipazione indiretta, in grado però di fornire “con ragionevole plausibilità, un sostegno indispensabile alla preparazione o all’esecuzione degli stessi”; iii) se per riconoscere la protezione sia necessario che le violazioni del diritto umanitario che si adducono risultino certe “oltre ogni ragionevole dubbio”. Ad avviso della Corte, è rilevante anche la sola probabilità che i crimini vengano commessi, non essendo necessario che si siano già verificati; iv) se debba darsi valore al fatto che la comunità internazionale o un mandato delle Nazioni Unite abbiano legittimato l’intervento delle forze armate o lo statuto dell’occupazione: la risposta della Corte è positiva e tali circostanze devono essere considerate rilevanti; v) se sia rilevante il fatto che il richiedente protezione non sia ricorso alla procedura per aderire all’obiezione di coscienza: anche qui la risposta della corte è positiva; perciò, se il richiedente, pur avendo concretamente a disposizione tale procedura, ha omesso di ricorrervi, allora non potrà in alcun modo procedersi al riconoscimento della protezione in base alla norma in esame.
Sull’ultima questione pregiudiziale relativa alle lett. b) e c), paragrafo 2, articolo 9, la Corte chiarisce se possano essere considerati atti di persecuzione ai sensi della norma, provvedimenti di congedo con disonore e di condanna a una pena detentiva, da cui derivino ostracismo sociale e ripercussioni negative. Premettendo che spetta alle autorità nazionali la verifica di tali circostanze, qui la Corte risponde negativamente, ritenendo che normalmente tali atti non possono essere considerati “sproporzionati o discriminatori” al punto da rientrare nella nozione di atti di persecuzione, essendo coerenti con il “legittimo esercizio da parte dello Stato interessato del suo diritto di mantenere una forza armata”.
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