Oggi pubblichiamo la nostra analisi di un’interessante sentenza emessa il 5 luglio 2016 dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo relativa ad un caso di detenzione in Ungheria di un richiedente asilo iraniano: O.M. contro Ungheria.
La Corte ha sostenuto che la detenzione del ricorrente, il quale aveva presentato domanda di asilo in Ungheria sulla base del proprio orientamento sessuale, fosse in violazione dell’art. 5 CEDU sul diritto alla libertà e sicurezza. Vedremo come nell’ambito dell’accertamento del carattere arbitrario della misura detentiva adottata dall’Ungheria, la Corte EDU dà particolare rilievo alla condizione di vulnerabilità del ricorrente, in quanto appartenente ad una minoranza sessuale in Iran.
La causa in esame ha ad oggetto la presunta violazione dell’articolo 5 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) da parte del governo ungherese. Il ricorrente è un cittadino iraniano che ha presentato domanda di asilo in Ungheria sulla base del proprio orientamento sessuale. Il ricorrente è stato detenuto dalle autorità ungheresi nell’ambito della procedura di asilo ed è proprio tale detenzione ad essere al vaglio della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Nel procedimento dinanzi alla Corte intervengono congiuntamente, quali terze parti, l’Advice on Individual Rights In Europe Centre (AIRE Centre), l’European Region of the International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersex Association (ILGA-EUROPE), l’International Commission of Jurists (ICJ) e l’European Council on Refugees and Exiles (ECRE).
I fatti alla base della controversia
Il caso concerne il cittadino iraniano O.M., entrato irregolarmente in Ungheria in data 24 giugno 2014 attraverso il confine con la Serbia, dove veniva fermato dalle autorità poiché sprovvisto di documenti di identità o di soggiorno. Successivamente, O.M. presentò domanda di asilo.
All’udienza del 25 giugno 2014 davanti all’Ufficio Immigrazione, O.M. dichiarò di essere fuggito dall’Iran per il suo orientamento sessuale e di essere arrivato in Ungheria senza documenti e tramite un trafficante di esseri umani. In quella sede reiterò la propria intenzione di richiedere la protezione internazionale.
A seguito dell’udienza, le autorità ordinarono la detenzione di O.M., in quanto la sua identità e nazionalità non risultavano provate. Inoltre, secondo le autorità, vi era ragione di ritenere che, se lasciato libero, il richiedente avrebbe potuto far perdere le proprie tracce, frustrando così la procedura d’asilo, in quanto era giunto in Ungheria in modo irregolare e non aveva nessun legame nel Paese o alcun mezzo di sostentamento. A norma della legge ungherese la detenzione dei richiedenti asilo può essere ordinata per un massimo di 72 ore, ma ne può essere richiesta l’estensione.
In data 26 giugno 2014, venne richiesta l’estensione della detenzione per un massimo di 60 giorni, con la motivazione che i richiedenti asilo di nazionalità iraniana tendono a far perdere le proprie tracce, creando dunque problemi nella procedura d’asilo. Inoltre, vennero reiterati l’ingresso irregolare, la mancanza di legami e di mezzi di sostentamento in Ungheria quali circostanze tali da giustificare l’estensione della detenzione. La Corte del Distretto di Debrecen accolse tale richiesta, estendendo dunque la detenzione per 60 giorni e rigettando la richiesta di liberazione avanzata dal richiedente asilo. Secondo la Corte, misure meno severe non sarebbero state in grado di assicurare la presenza del richiedente durante la procedura di asilo. Nessun riferimento veniva invece fatto alle circostanze individuali del signor O.M., tanto meno al suo orientamento sessuale.
Il richiedente asilo ripresentò successivamente richiesta di liberazione (o di trasferimento presso altra struttura non detentiva), ma le autorità non inoltrarono tale richiesta sostenendo che, poiché l’udienza relativa alla richiesta di asilo si sarebbe tenuta da lì a poco, il signor O.M. avrebbe potuto dare prova della propria identità in quella sede. Dunque, all’udienza per la richiesta di asilo, tenutasi in data 18 luglio 2014, il signor O.M. reiterò la propria richiesta di liberazione, sostenendo che, stante il suo orientamento sessuale, era difficile per lui sostenere le condizioni detentive, in particolare per il timore di molestie (paragrafo 14). Meno di un mese dopo l’udienza, in data 11 agosto 2014, le autorità presentarono una nuova richiesta di detenzione, che fu però rigettata in quanto non motivata adeguatamente.
In data 31 ottobre 2014 al signor O.M. fu riconosciuto lo status di rifugiato. Complessivamente, la detenzione era durata dal 25 giugno al 22 agosto 2014.
La questione sottoposta alla Corte
La Corte è chiamata a giudicare se la detenzione alla quale il signor O.M. è stato sottoposto rispetti o meno i limiti posti dall’articolo 5 CEDU.
Le argomentazioni delle parti
1) Il ricorrente
Il ricorrente sostiene che la detenzione non trova giustificazione ai sensi dell’articolo 5 CEDU. Secondo la difesa del signor O.M., sarebbe illogico ritenere che sia volontà dello stesso allontanarsi dall’Ungheria, frustrando così la procedura di asilo, in quanto quest’ultima inizia specificatamente ad impulso del richiedente asilo. Inoltre, la difesa del ricorrente si basa sul fatto che la detenzione possa essere ordinata solo quando vi è una obbligazione prevista dalla legge, la quale sia formulata in maniera chiara e concreta. Di contro, la legge ungherese non prevede formalmente nessun obbligo di dimostrare la propria identità per i richiedenti asilo.
Infine, anche qualora tale obbligazione fosse prevista, non potrebbe comunque ritenersi legittima, in quanto, secondo il ricorrente, nessuna analisi circa la proporzionalità o la necessità della misura detentiva è stata posta in essere dalle autorità. In particolare, nessuna considerazione è stata date alle Linee Guida dell’UNHCR in materia di richieste di asilo fondate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere. Nel caso di specie, l’orientamento sessuale del ricorrente non è stato preso in considerazione nell’ordinare la detenzione, così come non vi è stata una adeguata valutazione delle circostanze personali del richiedente asilo (paragrafo 32).
2) Il Governo ungherese
Il Governo ungherese rigetta l’accusa di detenzione illegittima da parte del ricorrente, in quanto tale misura trova giustificazione nell’obbligo, gravante sul richiedente asilo a norma del diritto interno, di rendere note le informazioni personali ai fini della procedura di asilo. Secondo il Governo ungherese, le circostanze del caso (quali l’ingresso irregolare) non rendevano affatto remota la possibilità che il signor O.M. potesse fuggire, vanificando così la procedura di asilo. La detenzione è quindi stata ordinata sulla base di un attento esame delle circostanze individuali del caso.
Inoltre, secondo il resistente, le Linee Guida UNHCR non sono cogenti, poiché si tratta solo di raccomandazioni. Secondo la difesa ungherese, non vi era nessuna indicazione che il richiedente asilo potesse trovarsi in pericolo a causa del proprio orientamento sessuale nella struttura detentiva di Debrecen; ciò in quanto non ha riportato alcun episodio di violenza fisica o psichica avvenuto durante la detenzione, né si è mai lamentato di ciò con le autorità. Ad ogni modo, secondo il governo ungherese, il rischio di abusi era minimo, poiché le guardie preposte alla struttura erano in numero sufficiente a garantirne la sicurezza.
2) L’intervento delle terze parti
Nel loro intervento congiunto, AIRE, ECRE, ILGA e ICJ sottolineano l’importanza delle Linee Guida UNHCR, in virtù del mandato di supervisione che quest’ultimo esercita sulla Convenzione relativa allo status dei rifugiati. Secondo le terze parti, il diritto nazionale e quello europeo devono essere interpretati in armonia con la Convenzione ed alla luce delle Linee Guida. Per tale motivo, le inconsistenze fra il diritto nazionale e le pratiche sviluppate da UNHCR dovrebbero costituire un indicatore di arbitrarietà ai fini dell’articolo 5 CEDU (paragrafo 39).
Il ragionamento della Corte
Dopo essersi pronunciata sulla ammissibilità del ricorso, la Corte decide che la richiesta può essere esaminata solo alla luce dell’articolo 5 CEDU e non anche per l’articolo 4 CEDU, come originariamente argomentato dal ricorrente.
Dunque, la Corte procede ad un’analisi dell’articolo 5 CEDU, soffermandosi in particolare sul concetto di arbitrarietà. Infatti, secondo la Corte di Strasburgo, anche se la detenzione rispetta il diritto nazionale interno, può comunque risultare “arbitraria” ai sensi della CEDU. A tal proposito, la Corte sottolinea come la detenzione sia ammissibile, in base all’articolo 5, solo laddove sia funzionale all’adempimento di una obbligazione prevista dalla legge; quindi, può essere ordinata solo qualora:
•vi sia una obbligazione non adempiuta incombente sulla persona sottoposta a detenzione;
•la detenzione sia veramente necessaria e specifica;
•il principio di proporzionalità sia rispettato.
La Corte sostiene che la legislazione ungherese non prevede l’obbligo, per i richiedenti asilo, di provare la propria identità, ma solo il dovere di collaborare con le autorità preposte alla procedura di asilo. Alla luce di tale considerazione, è opinione della Corte che il signor O.M. abbia fatto ciò che era in suo potere al fine di chiarire la propria identità, fornendo anche diverse dichiarazioni coerenti circa le ragioni che lo hanno portato a lasciare il suo Paese; non vi è dunque alcuna indicazione che faccia ritenere che il ricorrente non abbia collaborato con le autorità.
Inoltre, secondo i Giudici, la decisione di detenere il ricorrente non è stata preceduta da un accertamento individuale della sua situazione personale, nonostante ciò sia previsto dalla legge. Nel caso del signor O.M., infatti, la detenzione è stata motivata solo scarsamente, in particolare facendo meramente riferimento al fatto che, secondo le autorità, egli non era stato in grado di provare la propria identità. Ciò porta la Corte a concludere che la situazione del ricorrente non sia stata indagata in modo sufficiente, così come invece richiesto dal diritto interno (paragrafo 52).
Infine, la Corte evidenzia come particolare riguardo dovrebbe essere prestato, da parte delle autorità, nel decidere la sistemazione dei richiedenti asilo che dichiarino di essere parte, nel proprio Paese di origine, di un gruppo vulnerabile. Tale accortezza, osserva la Corte, appare necessaria al fine di evitare il riproporsi di quelle difficoltà che hanno obbligato queste persone a fuggire dal proprio Paese (paragrafo 53). Nel caso in esame, le autorità ungheresi non hanno approntato queste cautele, in quanto hanno ordinato la detenzione del ricorrente senza prendere in adeguata considerazione se soggetti vulnerabili – quali le persone lesbiche, gay, bisessuali o transgender (LGBT) – potessero essere al sicuro o meno nelle strutture detentive, stante soprattutto la presenza di persone provenienti da paesi dove vi sono forti pregiudizi culturali o religiosi verso gli individui LGBT. In questo senso, la decisione delle autorità non ha tenuto in adeguata considerazione le circostanze personali del signor O.M., la cui vulnerabilità deriva proprio dal suo appartenere ad una minoranza sessuale in Iran.
In conclusione, la Corte, all’unanimità, dichiara che l’Ungheria ha violato l’articolo 5 della CEDU. Per tale motivo, la condanna al pagamento di euro 7.500,00 a titolo di equa soddisfazione per i danni non patrimoniali, unitamente ad euro 3.395,00 per i costi e le spese della procedura in favore del ricorrente.
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