Alla luce dell’attuale crisi climatica, il richiamo ad un’azione concreta contro l’avanzamento del riscaldamento globale da parte dei governi della comunità internazionale diventa necessaria, oltre che urgente, se si guarda ai gravi danni che essa sta già causando alle società di tutto il mondo.
I paesi maggiormente esposti al rischio di subire disastri climatici sono spesso quelli che presentano bassi di livelli di “prontezza climatica” e alti livelli di fragilità statale; infatti, in un elenco di dieci paesi particolarmente vulnerabili alla crisi climatica, pur rappresentando solo lo 0.28% delle emissioni globali di CO2, si ritrovano: Somalia, Siria, Repubblica Democratica del Congo, Afghanistan, Yemen, Chad, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana, Nigeria, Etiopia; come si può intuire, tutti questi Stati condividono, al di là dell’esposizione al rischio climatico, anche un forte grado di fragilità delle istituzioni dello Stato, dal momento che si tratta di paesi in una situazione di conflitto o post-conflitto.[1]
Gli impatti dei cambiamenti climatici possono essere suddivisi in due categorie: eventi a lenta insorgenza ed eventi meteorologici estremi, ma entrambi possono causare gravi danni e perdite. Gli eventi a lenta insorgenza, come inizialmente introdotti dall’Accordo di Cancun (COP16), si riferiscono ai rischi e agli impatti associati a: aumento delle temperature; desertificazione; perdita di biodiversità; degrado dei terreni e delle foreste; ritiro dei ghiacciai e relativi impatti; acidificazione degli oceani; innalzamento del livello del mare; salinizzazione.[2] Al contrario, con gli eventi meteorologici estremi ci si riferisce a: tornado, uragani, cicloni, bufere di neve, tempeste di polvere, alluvione, tempesta di grandine, tempesta di ghiaccio.[3]
Questi eventi provocano gravi danni e perdite per le popolazioni locali che, in molti casi, sono costrette a spostarsi in altri territori, all’interno o all’esterno dei confini dello Stato. Nel primo caso, dunque, si parla di sfollati interni (Internally Displaced Persons-IDPs): secondo le stime dell’Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC), per il periodo 2008-2021, i nuovi sfollati interni causati da disastri ambientali ammonterebbero a 342,3 milioni, mentre quelli legati a guerre e violenze a 111,3 milioni.[4] Rispetto a questa categoria si applica un regime giuridico diverso, che contempla una serie di strumenti giuridici specifici, come ad esempio i Principi Guida delle Nazioni Unite sugli sfollati interni (Guiding Principles on Internal Displacement) del 1998. Questa categoria differisce da coloro che attraversano le frontiere del proprio paese (cross-border migrations).
In base al tipo di evento che colpisce un territorio si potrà parlare di migrazione forzata o migrazione reattiva: nel caso di risposta ad eventi meteorologici estremi si parlerà di migrazione forzata, al contrario, per quanto concerne gli eventi a lenta insorgenza, la risposta sarà necessariamente proattiva, cioè diretta ad evitare danni futuri. Così come sostenuto dalla ricerca portata avanti dal Dott. Basile, dal punto di vista pratico, considerata la carenza di dati precisi, non è sempre agevole distinguere le migrazioni volontarie dalle migrazioni forzate.
La migrazione ha una natura multi-causale e quindi le persone che si allontanano dai propri paesi d’origine o di residenza abituale lo fanno in virtù di molteplici ragioni: economiche, politiche, sociali; pertanto, l’elemento ambientale coesiste assieme ad altri come la disoccupazione, la guerra, la violenza generalizzata e così via.
Il quadro giuridico esistente fatica a fornire strumenti necessari per far fronte a un tema così complesso come la migrazione indotta dal clima; sul piano del diritto internazionale la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 non include il cambiamento climatico tra le ragioni per cui un individuo fugge dal proprio paese d’origine o di residenza abituale: infatti, l’art. 1, lett. a, par. 2 prevede esclusivamente che debba essere soddisfatto il requisito del fondato timore di persecuzione a causa della razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le opinioni politiche.
Nonostante i numerosi dibattiti in dottrina e contributi forniti, anche dell’Alto Commissariato per i rifugiati (UNHCR), è difficile, ad oggi, far rientrare la “persecuzione ambientale” all’interno dell’art. 1, lett. a, par.2 della Convenzione di Ginevra del 1951.[5]
Tuttavia, tra i diversi contributi in termini di soft law è fondamentale citare il Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration, adottato nel contesto delle Nazioni Unite nel 2018, per il suo tentativo di disciplinare il fenomeno migratorio tenendo conto delle diverse sfaccettature. Assieme al Global Compact on Refugees, questi due strumenti di soft law si basano da un lato sul riconoscimento delle catastrofi naturali e sugli effetti negativi del cambiamento climatico e dall’altro sul degrado ambientale come fattore trainante dello spostamento dei rifugiati e dei migranti, che vengono posti sullo stesso piano perché titolari degli stessi diritti e libertà fondamentali. [6]
Un altro tema di pari interesse è il principio di non-respingimento (art. 33, par.1 Convenzione di Ginevra), secondo cui uno Stato non può espellere un individuo verso paesi in cui rischierebbe di subire un danno grave alla propria sfera giuridica soggettiva. Come sottolinea Basile, gli obblighi derivanti dal divieto di respingimento si attivano in relazione a violazioni del diritto alla vita o del divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti. Nella decisione relativa al caso Teitiota, si è riconosciuta la possibilità che il non-refoulement venga innescato dal cambiamento climatico e dalle catastrofi naturali, determinando un passo innovativo per gli sviluppi della materia.
In conclusione, nonostante non vi siano riferimenti giuridici internazionali ai quali si può far ricondurre la categoria di “migranti climatici”, anche l’Alto Commissario per i Rifugiati, Filippo Grandi, ha sottolineato come “l’immagine che [quell’espressione] trasmette – di persone fuggite dalle loro case a causa dell’emergenza climatica – ha giustamente catturato l’attenzione dell’opinione pubblica”.[7]
Fondamentale per la stesura di questo approfondimento è stato il contributo fornito dal Dott. Vincenzo Basile, Phd Candidate in Diritto Internazionale presso l’Università di Napoli “L’Orientale” che si occupa di tutela dei “migranti climatici” nel quadro del diritto internazionale. Ulteriore riferimento bibliografico, al di là di quelli in nota, sul quale è possibile approfondire il tema è:
- Rosignoli F., Environmental Justice for Climate Refugees, Routledge, 2022.
[1] International Rescue Committee, “10 countries at risk of climate disaster”, 20 marzo 2023, url.
[2] UNFCC, “Slow onset events”, url.
[3] National Geographic, “Extreme Weather on Earth”, url.
[4] V. Basile, “UNHCR Guidelines on granting refugee status to those fleeing the consequences of climate change”, Essay on Migration and Asylum, ed. A.N. Krstevska, O. Koshevaliska & E. Maksimova, Faculty of Law, University Goce Delčev, Štip, 2022, p. 75.
[5] Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato 1951.
[6] V. Basile, op. cit, p. 76
[7] A. Lanni, “Esistono i “rifugiati climatici?”, UNHCR, url.