Chiunque abbia mai seguito il corso di una domanda di protezione internazionale sa che una delle motivazioni più frequenti, per non dire la più frequente, alla base del rigetto è la “mancanza di credibilità” o “incongruenza” delle dichiarazioni rese dai richiedenti asilo in fase di audizione.
Ma come e da chi (con quali competenze) un racconto può essere giudicato “non credibile” o “non plausibile” e una persona “non attendibile”? E sulla base di quali criteri?
Abbiamo chiesto a Barbara Sorgoni, ricercatrice e docente di Antropologia culturale all’Università di Bologna, ma soprattutto un’amica e una graditissima ospite su questo blog, di aiutarci a capire qualcosa di più su questo tema inevitabilmente complesso.
Il post di oggi è un importante contributo per noi e siamo certi che farà felici i lettori.
Partendo da una base teorica, a cui si aggiungono una serie di esempi concreti, Barbara Sorgoni ci aiuta a riflettere sul processo di raccolta, indagine, valutazione dei racconti alla base delle domande di asilo, mettendo in dubbio la presunta neutralità, fluidità e trasparenza di ognuno di questi passaggi.
In definitiva, ci pone seri interrogativi sulla capacità del nostro sistema (ma probabilmente di qualunque sistema) di esaminare le domande di asilo in modo congruo, obiettivo ed imparziale, così come pretende la legge (art. 8 par. 2 Direttiva Procedure).
Il post di oggi è un importante contributo per noi e siamo certi che farà felici i lettori.
Partendo da una base teorica, a cui si aggiungono una serie di esempi concreti, Barbara Sorgoni ci aiuta a riflettere sul processo di raccolta, indagine, valutazione dei racconti alla base delle domande di asilo, mettendo in dubbio la presunta neutralità, fluidità e trasparenza di ognuno di questi passaggi.
In definitiva, ci pone seri interrogativi sulla capacità del nostro sistema (ma probabilmente di qualunque sistema) di esaminare le domande di asilo in modo congruo, obiettivo ed imparziale, così come pretende la legge (art. 8 par. 2 Direttiva Procedure).
Grazie Barbara!
Credibilità – Barbara Sorgoni*
E’ comunemente riconosciuto che chi fugge all’improvviso da un pericolo estremo non sempre riesce a portare con sé documenti che provino la sua identità o le circostanze che hanno reso necessaria la fuga. Ed è noto che in molti casi la salvezza stessa è possibile solo grazie alla contraffazione di documenti di identità o di viaggio.
Secondo la Direttiva Qualifiche approvata dall’UE nel 2004 (e poi modificata nel dicembre 2011),
“qualora taluni aspetti delle dichiarazioni del richiedente non siano suffragati da prove documentali o di altro tipo, la loro conferma non è comunque necessaria”purché il richiedente mostri: di avere compiuto “sinceri sforzi per circostanziare la domanda”; di avere fornito una spiegazione soddisfacente della mancanza di altri elementi, o dichiarazioni “ritenute coerenti e plausibili”; e infine di essere “in generale attendibile”.1
Secondo la Direttiva Qualifiche approvata dall’UE nel 2004 (e poi modificata nel dicembre 2011),
“qualora taluni aspetti delle dichiarazioni del richiedente non siano suffragati da prove documentali o di altro tipo, la loro conferma non è comunque necessaria”purché il richiedente mostri: di avere compiuto “sinceri sforzi per circostanziare la domanda”; di avere fornito una spiegazione soddisfacente della mancanza di altri elementi, o dichiarazioni “ritenute coerenti e plausibili”; e infine di essere “in generale attendibile”.1
Come già nel Manuale dell’UNHCR (1992), la Direttiva Qualificheconsente quindi di valutare la generale coerenza, plausibilità e credibilità della storia del richiedente asilo come alternativaalla produzione di prove documentali, qualora queste non siano disponibili.
Nei vari paesi europei si è così assistito ad una progressiva crescita di importanza delle storie dei richiedenti asiloai fini del riconoscimento della protezione internazionale.
Di fatto però, in molti casi il giudizio sulla credibilità della storia ha finito per sostituire la ricerca o l’esame delle prove documentali; come corollario, la motivazione più frequentemente adottata nei dinieghi si riferisce alla non credibilità della storia narrata. Eppure la Direttiva Qualifiche non spiega in che modo sia possibile accertare l’attendibilità di tali racconti.
Nei vari paesi europei si è così assistito ad una progressiva crescita di importanza delle storie dei richiedenti asiloai fini del riconoscimento della protezione internazionale.
Di fatto però, in molti casi il giudizio sulla credibilità della storia ha finito per sostituire la ricerca o l’esame delle prove documentali; come corollario, la motivazione più frequentemente adottata nei dinieghi si riferisce alla non credibilità della storia narrata. Eppure la Direttiva Qualifiche non spiega in che modo sia possibile accertare l’attendibilità di tali racconti.
Poiché la credibilità si basa sulla narrazione, è di cruciale importanza capire in che modo questa viene raccolta, in che tempi e da chi, sapendo che ognuna di queste variabili potenzialmente introduce variazioni nel racconto stesso.
In Questura per la prima formalizzazione di richiesta di protezione, in Commissione territoriale per l’audizione o in Tribunale per il ricorso, il richiedente asilo incontra funzionari, interpreti, avvocati, giudici e operatori: in ognuno di questi incontri vengono scambiate o assemblate informazioni sulla storia, e la storia stessa viene narrata, tradotta e trascritta più volte e in più versioni da diversi soggetti.
Le narrazioni fornite dai richiedenti asilo per ottenere protezione sono quindi molto particolari: sono prodotte in contesti altamente controllati nei quali la relazione di potere è fortemente asimmetrica; dove i tempi del racconto sono scanditi (e interrotti) da quelli della procedura, e la modalità espressivafortemente costretta all’interno di un formato rigido; e dove i codici culturali non sono necessariamente noti né condivisi tra chi narra e chi ascolta, generando fraintendimenti percepiti infine come prova di scarsa credibilità.
In Questura per la prima formalizzazione di richiesta di protezione, in Commissione territoriale per l’audizione o in Tribunale per il ricorso, il richiedente asilo incontra funzionari, interpreti, avvocati, giudici e operatori: in ognuno di questi incontri vengono scambiate o assemblate informazioni sulla storia, e la storia stessa viene narrata, tradotta e trascritta più volte e in più versioni da diversi soggetti.
Le narrazioni fornite dai richiedenti asilo per ottenere protezione sono quindi molto particolari: sono prodotte in contesti altamente controllati nei quali la relazione di potere è fortemente asimmetrica; dove i tempi del racconto sono scanditi (e interrotti) da quelli della procedura, e la modalità espressivafortemente costretta all’interno di un formato rigido; e dove i codici culturali non sono necessariamente noti né condivisi tra chi narra e chi ascolta, generando fraintendimenti percepiti infine come prova di scarsa credibilità.
Al contrario, chi giudica l’attendibilità della storia di persecuzione dà solitamente per scontato che la narrazione fluisca libera e ininterrotta in modo volontario; che il ricordo traumatico rimanga sempre identico a prescindere dallo scorrere del tempo; che non sia difficile o impossibile raccontare ad estranei – magari di sesso diverso – esperienze indicibili, che ci si fidi di (e affidi a) un interprete mai incontrato prima.
Gli scienziati sociali che lavorano sui meccanismi della memoria e le storie di vita (dall’antropologia alla storia orale) hanno da tempo dimostrato l’esistenza di scarti – come aggiunte, omissioni, divergenze – tra versioni della stessa storia: differenze dovute al trascorrere del tempo, al mutare del pubblico che ascolta o del contesto in cui si narra. Se questo è vero per ogni tipo di narrazione, recenti studi medici e psicologici sulla memoria traumatica mostrano inoltre che proprio gli eventi più dolorosi tendono ad essere raccontati in modo frammentario e “sconnesso”: differenti versioni e incoerenze dimostrano qui non l’inattendibilità ma, al contrario, l’indicibilità di quanto accaduto.
Questa frammentazione della memoria – legata sia alle particolari vicende di violenza vissute, sia al passare del tempo e al mutare delle condizioni tra primo arrivo e audizione in Commissione – è amplificata dall’andamento dell’interrogatorio in audizione o davanti al giudice per il ricorso.
In questi contesti le domande non seguono uno schema cronologico lineare, piuttosto si muovono avanti e indietro nel tempo della storia di vita, di persecuzione e di fuga, interrompendo continuamente la narrazione del richiedente con check-questionsvolte a verificarne l’attendibilità (il nome del capo dello stato, della città più vicina, il fiume che la attraversa, la principale banca del paese…).
Questo tipo di domande genera confusione nei richiedenti asilo: pensando di dover raccontare la propria storia di persecuzione, si trovano invece a rispondere ad un interrogatorio strutturato in cerca di contraddizioni e menzogne.
In questi contesti le domande non seguono uno schema cronologico lineare, piuttosto si muovono avanti e indietro nel tempo della storia di vita, di persecuzione e di fuga, interrompendo continuamente la narrazione del richiedente con check-questionsvolte a verificarne l’attendibilità (il nome del capo dello stato, della città più vicina, il fiume che la attraversa, la principale banca del paese…).
Questo tipo di domande genera confusione nei richiedenti asilo: pensando di dover raccontare la propria storia di persecuzione, si trovano invece a rispondere ad un interrogatorio strutturato in cerca di contraddizioni e menzogne.
Nel valutare l’attendibilità, la Direttiva Qualifiche fa riferimento a elementi del racconto che non siano “in contraddizione con le informazioni generali e specifiche
[…] di cui si dispone”. Prevede per questo che i giudici ottengano informazioni ad hoc sul paese di origine del richiedente.2
La ricerca disponibile su vari paesi europei mostra però che spesso la documentazione aggiuntiva non viene acquisita da chi valuta la storia, e che il giudizio sulla credibilità si basa più spesso sulle credenzecondivise dai giudici.
In questo caso, la differenza tra contesti culturali e politici può far ritenere inattendibili vicende di persecuzione reale solo perché appartengono a mondi di significato molto lontani tra loro.
E’ il caso della stregoneria: un complesso sistema di credenze che regola le relazioni sociali in molti paesi, in alcuni dei quali è riconosciuta come reato dagli stessi codici penali. Una consolidata e consistente letteratura antropologica ne descrive in modo articolato il funzionamento: l’accusa di stregoneria come forma di violenza della collettività sull’individuo utilizzata per gestire tensioni sociali; risolta in tribunali locali che hanno il potere di condannare l’accusato solitamente senza dover esplicitare il motivo (socialmente condiviso e quindi noto); il cui esito è spesso l’uccisione dell’accusato.
A fronte di tali conoscenze, le richieste di protezione internazionale per accusa di stregoneria si risolvono solitamente in dinieghi, non apparendo credibile proprio quanto la letteratura antropologica documenta: che l’accusa non sia formalizzata, che i tribunali locali abbiano un tale potere decisionale, che l’esito sia la messa a morte anche laddove la pena non è specificata.
La ricerca disponibile su vari paesi europei mostra però che spesso la documentazione aggiuntiva non viene acquisita da chi valuta la storia, e che il giudizio sulla credibilità si basa più spesso sulle credenzecondivise dai giudici.
In questo caso, la differenza tra contesti culturali e politici può far ritenere inattendibili vicende di persecuzione reale solo perché appartengono a mondi di significato molto lontani tra loro.
E’ il caso della stregoneria: un complesso sistema di credenze che regola le relazioni sociali in molti paesi, in alcuni dei quali è riconosciuta come reato dagli stessi codici penali. Una consolidata e consistente letteratura antropologica ne descrive in modo articolato il funzionamento: l’accusa di stregoneria come forma di violenza della collettività sull’individuo utilizzata per gestire tensioni sociali; risolta in tribunali locali che hanno il potere di condannare l’accusato solitamente senza dover esplicitare il motivo (socialmente condiviso e quindi noto); il cui esito è spesso l’uccisione dell’accusato.
A fronte di tali conoscenze, le richieste di protezione internazionale per accusa di stregoneria si risolvono solitamente in dinieghi, non apparendo credibile proprio quanto la letteratura antropologica documenta: che l’accusa non sia formalizzata, che i tribunali locali abbiano un tale potere decisionale, che l’esito sia la messa a morte anche laddove la pena non è specificata.
Ma i dinieghi per inattendibilità si possono avere anche rispetto a circostanze ampiamente documentate in Rapporti internazionali di più ampia divulgazione. Può ad esempio essere considerato non credibile chi racconti di essere stato torturato assieme ad altre persone ma di essere l’unico rilasciato, sebbene sia nota e diffusa la pratica di lasciare in vita un testimone come monito per gli altri.
E possono sembrare contraffatti quei documenti che certificano cure mediche ricevute presso l’ospedale della struttura nella quale si è stati torturati, sebbene anche questa pratica sia ampiamente documentata come palese dimostrazione di impunità e mezzo di dissuasione.
Infine, appare solitamente inattendibile chi, sottoposto a violenze e torture in strutture carcerarie, si sia salvato grazie all’intervento compassionevole di un carceriere che ne ha permesso la fuga.
Non sembra credibile ai giudici che qualcuno sia oggi disposto a rischiare molto per salvare un innocente. Di fronte a questo tipo di dinieghi, è difficile non ripensare alle tante storie di ebrei sopravvissuti allo sterminio in Europa perché nascosti o fatti fuggire da chi ha rischiato anche la vita per proteggere, a volte, persino sconosciuti: oggi quei sopravvissuti non sarebbero “credibili”.
E possono sembrare contraffatti quei documenti che certificano cure mediche ricevute presso l’ospedale della struttura nella quale si è stati torturati, sebbene anche questa pratica sia ampiamente documentata come palese dimostrazione di impunità e mezzo di dissuasione.
Infine, appare solitamente inattendibile chi, sottoposto a violenze e torture in strutture carcerarie, si sia salvato grazie all’intervento compassionevole di un carceriere che ne ha permesso la fuga.
Non sembra credibile ai giudici che qualcuno sia oggi disposto a rischiare molto per salvare un innocente. Di fronte a questo tipo di dinieghi, è difficile non ripensare alle tante storie di ebrei sopravvissuti allo sterminio in Europa perché nascosti o fatti fuggire da chi ha rischiato anche la vita per proteggere, a volte, persino sconosciuti: oggi quei sopravvissuti non sarebbero “credibili”.
1 Cfr. Direttiva Qualifiche 2004/83/CE art. 4 § 5, recepita in Italia con D. lgs. 251/2007 (art. 3 § 5). Il testo è rimasto identico anche nella nuova versione della Direttiva Qualifiche (Direttiva 2011/95/UE), che dovrà essere recepita dagli Stati membri entro la fine del 2013.
2 Cfr. Direttiva Qualifiche (2004/83/CE, art. 4 § 3). Il testo è rimasto identico anche nella nuova versione della Direttiva Qualifiche (Direttiva 2011/95/UE), che dovrà essere recepita dagli Stati membri entro la fine del 2013. Cfr. anche la sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite (n. 27310 del 21/10/2008) sull’onere probatorio, che assegna al giudice il compito di acquisire informazioni aggiornate sulla situazione politica del paese.
* Barbara Sorgoni è ricercatrice e docente di Antropologia culturale all’Università di Bologna. Si è occupata di antropologia e colonialismo italiano nel Corno d’Africa (Parole e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interrazziali nella colonia Eritrea, Liguori, Napoli 1998; Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera, Bollati Boringhieri, Torino 2001) , e di processi istituzionali e ruolo di narrazioni e certificazioni nella protezione internazionale. Sul tema ha curato Etnografia dell’accoglienza. Rifugiati e richiedenti asilo a Ravenna, CISU, Roma 2011; e “Chiedereasilo in Europa. Confini margini e soggettività”, Lares, vol. LXXVII, n.1, 2011.