Si trattava di una richiesta di pronuncia pregiudiziale sull’interpretazione della Direttiva Accoglienzae, in particolare sull’ambito di applicazione di tale direttiva. Ci eravamo già occupati di questa causa un po’ di tempo fa, allorché avevamo parlato dell’intervento dell’UNHCR nel procedimento. (V. nostro precedente post qui)
Proporremo poi una breve riflessione, a partire dal ragionamento svolto dall’Avvocato Generale nelle sue conclusioni presentate il 15 maggio 2012 e dal caso italiano.
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Se la Direttiva Accoglienza garantisca il diritto di beneficiare delle condizioni minime di accoglienza da essa previste ai richiedenti per i quali uno Stato membro, cui sia stata presentata una domanda di asilo, decida, in applicazione del Regolamento Dublino, di interpellare un altro Stato membro che esso ritenga competente per l’esame della domanda, per l’intera durata della procedura di presa in carico o di ripresa in carico da parte di tale altro Stato membro.
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In caso di risposta affermativa,
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se l’obbligo incombente al primo Stato membro di garantire il beneficio delle condizioni minime di accoglienza cessi al momento della decisione di accettazione da parte dello Stato membro richiesto, al momento della presa in carico o della ripresa in carico effettiva del richiedente asilo, o a un’altra data;
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quale sia lo Stato membro cui incombe l’onere finanziario derivante dalla concessione delle condizioni minime di accoglienza durante tale periodo.
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l’ambito di applicazione della Direttiva Accoglienza è definito dal suo art. 3.1, che recita:
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le condizioni minime di accoglienza previste dalla direttiva devono essere riconosciute, a norma dell’art. 13.1, dal momento della presentazione della domanda di asilo (par. 39 della sentenza)
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niente nella Direttiva può spingere a ritenere che una domanda di asilo sia stata depositata soltanto se è presentata alle autorità dello Stato membro competente a esaminarla (par. 40);
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la Corte fa quindi riferimento all’economia generale e alla finalità della Direttiva Accoglienza e sottolinea come tale direttiva mira “in particolare a garantire il pieno rispetto della dignità umana e a promuovere l’applicazione degli articoli 1 e 18 della Carta” (par. 42);
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la Corte rifiuta poi la possibilità che l’esclusione dall’ambito di applicazione della Direttiva Accoglienza dei richiedenti asilo “Dublino” possa essere giustificata dal fatto che la procedura per la determinazione dello Stato competente sarebbe rapida; il Regolamento Dublino prevede al contrario termini piuttosto lunghi sia per la risposta dello Stato competente sia per l’esecuzione del trasferimento (par. 44);
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quanto al presupposto di essere autorizzati a rimanere nel territorio in qualità di richiedenti asilo, la Corte afferma che, in base al diritto UE, “i richiedenti asilo sono autorizzati a rimanere non soltanto nel territorio dello Stato membro nel quale la domanda di asilo viene esaminata, ma anche in quello dello Stato membro nel quale la domanda è stata depositata (par. 48).
Questa dunque la risposta che la Corte di Giustizia dell’Unione Europea fornisce alla prima domanda del giudice francese:
Quanto alla seconda questione:
- la Corte, dopo aver ricordato che, a norma della Direttiva Accoglienza e del Regolamento Dublino, è definito come richiedente asilo il cittadino straniero o apolide che abbia presentato una domanda di asilo in merito alla quale non è ancora stata presa una decisione definitiva, sottolinea come la richiesta di uno Stato membro volta ad ottenere la presa in carico da parte di un altro Stato membro non mette certo fine all’esame della domanda di asilo da parte dello Stato autore della richiesta. Può infatti succedere, per motivi diversi, che il trasferimento non avvenga mai (par 54);
- la Corte fa poi nuovamente riferimento all’economia generale e alla finalità della Direttiva Accoglienza, nonché ovviamente al rispetto dei diritti fondamentali, che ostano “a che un richiedente asilo venga privato – anche solo per un periodo temporaneo dopo la presentazione di una domanda di asilo, e prima che egli venga effettivamente trasferito nello Stato membro competente – della protezione conferita dalle norme minime dettate dalla citata direttiva.” (par. 56);
- da tutto ciò deriva che l’obbligo per lo Stato membro dove sia stata presentata una domanda di asilo di concedere le condizioni minime di accoglienza stabilite dalla Direttiva Accoglienza cessa solo al momento del trasferimento effettivo nello Stato membro competente (par. 58);
- circa l’onere finanziario dell’accoglienza, la Corte non ha dubbi: in assenza di disposizioni in senso contrario vige la regola generale per cui esso incombe sullo Stato su cui grava l’obbligo di soddisfare le incombenze derivanti dal diritto dell’Unione. Dunque, in questo caso, allo Stato che è tenuto a garantire le condizioni minime di accoglienza (par. 59).
La Corte risponde dunque così alla seconda domanda:
Ci interessa in chiusura richiamare brevemente le Conclusioni dell’Avvocato Generale in questa causa. Queste ultime, infatti, si erano spinte oltre, affermando:
“risulta evidente che la condizione per l’applicazione della direttiva e per l’accesso alle condizioni materiali di accoglienza è data dal fatto che il cittadino del paese terzo «presenti una domanda d’asilo». Ma cosa significano queste parole (apparentemente semplici)?[…] Ritengo che l’interpretazione ovvia e naturale da dare al passo citato sia che le parole «presentano una domanda d’asilo» significhino quanto esse dicono. Nel momento in cui il cittadino di un paese terzo dichiara in modo inequivocabile e chiaro, al confine o all’interno del territorio di uno Stato membro, la sua intenzione di chiedere asilo, le autorità competenti iniziano ad esaminarne la domanda. Uno dei primi passi nel processo di valutazione può consistere nel chiedersi se un diverso Stato membro sia (o possa essere) lo Stato membro competente a esaminare nel merito la domanda, ai sensi del regolamento Dublino II. Ma la domanda di asilo è già stata «proposta», facendo, così, sorgere i diritti previsti dalla direttiva accoglienza.“
Ancora,
“Per accogliere l’argomentazione dedotta dalla Francia, […], sarebbe necessario che la normativa avesse previsto, espressamente o implicitamente, una categoria distinta di «pre-richiedenti asilo», vale a dire, richiedenti asilo presenti nello Stato membro ospitante da assoggettare a differente trattamento, dal momento che lo Stato non ha ancora riconosciuto loro un adeguato permesso di soggiorno. La normativa nulla prevede in tal senso. Al contrario, l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva accoglienza impone agli Stati membri di garantire che, entro tre giorni dalla presentazione della domanda di asilo, al richiedente asilo sia rilasciato un documento che certifichi lo status di richiedente asilo e che attesti che egli è autorizzato a soggiornare nel territorio di detto Stato nel periodo in cui la domanda è pendente o in esame.“
Ricordiamo come sempre che le Opinioni dell’AG non sono in alcun modo vincolanti, né per i giudici della Corte – che possono anche del tutto discostarsene – né per le parti in causa. Si tratta però di ragionamenti giuridici interessanti.
Il passaggio citato sopra non compare nella sentenza della Corte, o per lo meno non compare in termini così ampi. I giudici si limitano infatti a dire che la Direttiva Accoglienza “prevede soltanto una categoria di richiedenti asilo, comprendente tutti i cittadini di paesi terzi e gli apolidi che depositano una domanda di asilo. Detta direttiva non contiene alcuna disposizione tale da far ritenere che una domanda di asilo possa considerarsi depositata soltanto se e stata presentata alle autorità dello Stato membro competente ad esaminarla.“
Ci sembra che la Corte abbia voluto attenersi strettamente alla domanda di pronuncia pregiudiziale avanzatale (che aveva ad oggetto la “procedura Dublino”), senza andare oltre.
Ma il ragionamento più ampio dell’Avvocato Generale, a nostro parere, rimane comunque condivisibile.
Ai fini di stabilire da quando il richiedente ha diritto alle condizioni di accoglienza stabilite dalla Direttiva Accoglienza, una domanda di asilo deve ritenersi presentata nel momento in cui il cittadino di un paese terzo dichiara in modo inequivocabile e chiaro, al confine o all’interno del territorio di uno Stato membro, la sua intenzione di chiedere asilo.
Ci sembra importante sottolineare la posizione dell’AG, soprattutto alla luce del fatto che in Italia paiono non infrequenti casi in cui tra la manifestazione “inequivocabile e chiara” da parte dello straniero della volontà di richiedere asilo e la formalizzazione della domanda (con conseguente avvio delle misure di accoglienza) intercorre un tempo significativo.
Si veda a tal proposito molto chiaramente ASGI, Il diritto alla protezione, 2011, dove gli autori peraltro già concludevano che “[i]l fatto che un gran numero di richiedenti asilo siano confinati per settimane o mesi in una condizione di limbo giuridico e vengano impropriamente esclusi dall’accesso alle misure di accoglienza rischia di […] configurare una grave violazione del diritto comunitario” (pag. 116).
Il ragionamento dell’Avvocato Generale in questa causa ci pare un ulteriore argomento a favore di questa tesi.