Con la sentenza, pronunciata il 4 novembre 2014, nel caso Tarakhel c. Svizzera, la Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato a maggioranza dei suoi membri (14 contro 3) che, allo stato attuale, il rinvio verso l’Italia di richiedenti asilo particolarmente vulnerabili, quali un nucleo familiare con minori, è suscettibile, in mancanza di adeguate garanzie, di violare il divieto di trattamenti inumani o degradanti, sancito dall’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU).
La Corte, per l’ennesima volta, conferma con questa sentenza che la decisione di trasferire uno o più richiedenti asilo verso lo Stato membro competente in base ai criteri del Regolamento Dublino, deve sempre essere assunta nel rispetto dei diritti umani, dopo un esame rigoroso sia della situazione generale del sistema di asilo di detto Stato sia della situazione individuale dei richiedenti.
Nel post di oggi commentiamo questa importante sentenza, seguendo il ragionamento che ha portato i giudici della Corte alla decisione e poi confrontando questa sentenza con precedenti della Corte che avevano invece escluso violazioni della CEDU in caso di rinvii verso l’Italia.
Fatta eccezione per il coinvolgimento di uno Stato non membro dell’UE (la Svizzera comunque applica il Regolamento Dublino in virtù di un accordo sottoscritto con l’Unione), a prima vista questa pronuncia potrebbe sembrare una mera applicazione al caso di specie dei principi enunciati dalla medesima Corte nella sentenza M.S.S. c. Belgio e Grecia (21 gennaio 2011), in cui, tra le altre cose, il Belgio era stato condannato per aver rinviato un richiedente asilo verso la Grecia nonostante il numeroso materiale a disposizione indicasse chiaramente il collasso del sistema di asilo greco.
E’ davvero così? La Corte assimila la situazione del sistema di asilo italiano a quella del sistema greco?
La risposta è no. In effetti, se per arrivare alla decisione in esame la Corte prende le mosse dai princìpi sanciti nella sentenza M.S.S., successivamente, considerate le peculiarità del caso concreto, se ne discosta o meglio li sviluppa ulteriormente, argomentando come segue.
I. I fatti all’origine del ricorso
Il 16 luglio 2011, i ricorrenti – una famiglia afgana formata da padre, madre e sei figli minori – arrivano sulle coste della Calabria, dove forniscono alle autorità competenti una falsa identità. Sottoposti quindi alla procedura di identificazione EURODAC, vengono ospitati per dieci giorni in una struttura di accoglienza temporanea, per essere in seguito trasferiti nel CARA di Bari.
Il 28 luglio 2011, senza aver ottenuto alcuna autorizzazione in tal senso, il nucleo familiare abbandona il CARA e si trasferisce in Austria, dove presenta immediatamente domanda di asilo. Accertata la provenienza dall’Italia, le autorità austriache rigettano la domanda e presentano una richiesta di presa in carico da parte dell’Italia, che la accetta. I ricorrenti si dirigono quindi dall’Austria alla Svizzera, dove il 3 novembre 2011 presentano nuovamente una domanda di asilo. Tuttavia, anche la Svizzera rigetta la domanda e inoltra una richiesta di presa in carico all’Italia, che (tacitamente) accetta.
Conseguentemente, il 24 gennaio 2012, l’ufficio federale per la migrazione svizzero emette un ordine di espulsione verso l’Italia dei ricorrenti che questi impugnano (a due riprese) davanti alla Corte amministrativa federale. Entrambi i ricorsi sono respinti.
Esaurite le vie di ricorso interne, i ricorrenti si rivolgono alla Corte di Strasburgo, invocando a carico della Confederazione svizzera la violazione di tre disposizioni della CEDU:
- il divieto di trattamenti inumani o degradanti (art. 3);
- il diritto al rispetto della vita familiare (art. 8);
- il diritto ad un ricorso effettivo (art. 13 in combinato disposto con l’art. 3).
In attesa di pronunciarsi nel merito, la Corte accoglie la richiesta dei ricorrenti di ingiungere alle autorità svizzere la sospensione in via d’urgenza della procedura di espulsione verso l’Italia sulla base dell’art. 39 del Regolamento della Corte.
II. Analisi giuridica della Corte
Vediamo ora come i giudici sono arrivati alla decisione nel merito.
Innanzitutto, alla luce del quadro fattuale come sopra esposto, la Corte ritiene di non dover esaminare nel merito la presunta violazione da parte della Svizzera del diritto al rispetto della vita familiare dei ricorrenti (art. 8 CEDU). (par. 55)
Sulla violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti (art. 3 CEDU)
Preliminarmente, la Corte precisa che la responsabilità della Svizzera vis-à-vis l’art. 3 CEDU non è in discussione. In effetti, sebbene la Confederazione svizzera non sia uno Stato membro dell’UE questo Paese si è impegnato a rispettare le disposizioni del Regolamento Dublino, inclusa la cosiddetta “clausola di sovranità”, contemplata dall’art. 3, par. 2 del Regolamento Dublino 2 (oggi art. 17 par. 1 del Regolamento Dublino 3, si veda la nostra scheda a riguardo). Ed è proprio in virtù di questa possibilità offerta agli Stati – vale a dire la facoltà di esaminare una domanda di asilo introdotta sul loro territorio, anche quando lo Stato competente ai sensi del Regolamento Dublino è un altro – che la Corte ritiene che la decisione della Svizzera di rinviare i ricorrenti in Italia si configuri non come attuazione di un obbligo contemplato dal citato regolamento, ma come esercizio di un potere discrezionale, suscettibile quindi di essere sottoposto al controllo di compatibilità con la CEDU. (parr. 88-91)
Detta in parole povere: l’applicazione dei “criteri di Dublino” non può mai essere una scusa per non rispettare i diritti umani.
Successivamente, la Corte entra nel merito della violazione contestata alla Svizzera, ricordando dapprima i principi generali e applicandoli in seguito al caso di specie.
Quanto ai principi generali, in primo luogo, la Corte ricorda che, conformemente alla sua giurisprudenza costante, il divieto contemplato dall’art. 3 CEDU impone agli Stati contraenti di non espellere un richiedente asilo, ogniqualvolta sussistano dei motivi seri e comprovati di ritenere che nello Stato di destinazione il soggetto espulso corra un rischio reale di essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti. E che i trattamenti in questione devono caratterizzarsi per un minimo di gravità, da valutare alla luce di un insieme di variabili, quali la durata e gli effetti dei trattamenti, il sesso, l’età e lo stato di salute della vittima. (parr. 93-94)
In seguito, la Corte – seguendo l’approccio innovativo già adottato in M.S.S. – conferma che, se l’art. 3 CEDU non pone in capo agli Stati contraenti l’obbligo di garantire un diritto a un alloggio o un’assistenza finanziaria adeguata a ogni richiedente asilo, un obbligo siffatto discende, sugli Stati membri UE, dalla Direttiva accoglienza. (parr. 95-96)
Richiamandosi sempre ad M.S.S., la Corte ricorda poi che i richiedenti asilo costituiscono una categoria di soggetti particolarmente vulnerabile, avente diritto ad una tutela speciale, a maggior ragione quando si tratta di minori, accompagnati o non. (parr. 97 e 99)
Venendo al caso di specie, la Corte constata che nell’applicare ad esso i principi generali sopra illustrati, occorre valutare se, alla luce della situazione generale del sistema italiano di accoglienza dei richiedenti asilo e della situazione particolare dei ricorrenti, esistano dei motivi seri e comprovati di ritenere che in caso di rinvio verso l’Italia i ricorrenti rischino di subire trattamenti contrari all’art. 3 CEDU. (par. 105)
i) Situazione generale del sistema italiano di accoglienza dei richiedenti asilo
La Corte esamina questo aspetto da tre punti di vista:
– lentezza della procedura di identificazione: la Corte rileva che, posto che le autorità italiane hanno identificato i ricorrenti nel giro di 10 giorni dal loro arrivo, al sistema di asilo italiano non può essere contestata la lentezza della procedura di identificazione;
– posti a disposizione nei centri di accoglienza: la Corte, posta di fronte alla complessità e alla eterogeneità dei diversi sistemi di accoglienza italiani e alla difficoltà di calcolare con precisione quanti richiedenti asilo siano effettivamente privi di ogni sistemazione, sceglie di non entrare nel dibattito sui dati, limitandosi a considerare la sproporzione flagrante tra il numero delle richieste di asilo presentate nel 2013 e il numero dei posti disponibili all’interno del sistema SPRAR, oltre al fatto che né il governo svizzero né quello italiano hanno sostenuto che l’insieme di SPRAR e CARA sarebbero in grado di assorbire anche solo la maggior parte delle necessità di accoglienza (si noti tuttavia che, come si dirà sotto, i ricorrenti in questione sarebbero stati ospitati in un centro finanziato dal Fondo Europeo per i Rifugiati-FER);
– le condizioni di accoglienza nelle strutture disponibili: la Corte fa qui riferimento: a) alle Raccomandazioni dell’UNHCR del 2013, in cui – pur descrivendo criticità relative alla diversità dei servizi offerti – non si faceva cenno a situazioni di violenza diffusa o condizioni insalubri e anzi si sottolineava gli sforzi fatti dall’Italia per migliorare le condizioni di accoglienza; b) al rapporto del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa del 2012, che sottolineava l’esistenza di problemi in alcuni centri di accoglienza, con particolare riferimento ai servizi offerti (supporto legale, assistenza psicologica,…). Conseguentemente, la Corte constata che la situazione attuale del sistema di accoglienza italiano non è in alcun modo comparabile a quella del sistema greco all’epoca della sentenza M.S.S., e che pertanto l’approccio adottato in quella sede non può essere impiegato per la soluzione del caso di specie. (par. 114)
Tuttavia, se da una parte la situazione generale del sistema di accoglienza italiano non è tale da impedire qualsiasi rinvio di richiedenti asilo verso l’Italia, d’altra parte, i dati e le informazioni disponibili insinuano seri dubbi sulle capacità del sistema e non consentono di considerare manifestamente infondato il rischio che un numero significativo di richiedenti asilo siano lasciati senza sistemazione o siano accolti in centri sovraffollati, senza privacy o addirittura in condizioni insalubri o di violenza. (par.115)
ii) Situazione individuale dei ricorrenti
In via preliminare, la Corte osserva che, così come la situazione attuale del sistema di accoglienza italiano non è comparabile a quella del sistema greco al’epoca di M.S.S., anche la situazione individuale dei ricorrenti nei rispettivi casi non è assimilabile. Infatti, nel caso di cui ci occupiamo oggi i ricorrenti erano comunque stati immediatamente presi in carico dalle autorità italiane, mentre M.S.S. era stato piazzato dalle autorità greche in detenzione e, successivamente, era stato lasciato “ad arrangiarsi”, senza alcun mezzo di sostentamento. (par. 117)
Tuttavia, la Corte ribadisce che nemmeno queste differenze nella situazione individuale consentono di escludere in assoluto il rischio che, nel caso oggetto di esame, vengano commesse delle violazioni dell’art. 3 CEDU a danno dei ricorrenti. Ciò a maggior ragione se si considera che tra questi vi sono dei minori, nei cui confronti le condizioni di accoglienza devono necessariamente essere calibrate sulla loro età. (par. 119)
Conseguentemente, la Corte ritiene che, nelle circostanze proprie al caso di specie (nonostante tutte le differenze con il caso greco), le autorità svizzere debbano ottenere garanzie presso gli omologhi italiani che, una volta rinviati in Italia, i ricorrenti saranno accolti in strutture e in condizioni adeguate all’età dei bambini e che l’unità del nucleo familiare sarà preservata. (par. 120)
La semplice comunicazione, senza ulteriori precisazioni, che i ricorrenti verranno ospitati a Bologna, in una struttura finanziata dal fondo europeo per i rifugiati (FER), in assenza di dettagliate e affidabili informazioni riguardo a questo centro, alle condizioni di accoglienza e al mantenimento dell’unità familiare, non può secondo i giudici considerarsi sufficiente. (par. 121)
Pertanto, la Corte dichiara che la Svizzera incorrerebbe in una violazione dell’art. 3 CEDU se i ricorrenti fossero rinviati in Italia senza che le autorità svizzere competenti abbiano ottenuto preliminarmente da parte di quelle italiane una garanzia individuale, da un lato, sull’adeguatezza delle condizioni di accoglienza rispetto all’età dei minori e, dall’altro lato, sul mantenimento dell’unità familiare.
Sulla violazione del diritto ad un ricorso effettivo (art. 13 in combinato disposto con l’art 3 CEDU)
La Corte, dopo aver ricordato che la presunta violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti contemplato dall’art. 3 CEDU deve essere sottoposta al controllo indipendente e rigoroso di una istanza nazionale, conclude che, alla luce della documentazione prodotta dal governo della Confederazione svizzera, un siffatto controllo è stato garantito dalle autorità nazionali competenti. (parr. 126-127) Pertanto, la Corte rigetta nel merito la doglianza dei ricorrenti relativa alla violazione da parte della Svizzera dell’art. 13 CEDU, letto in combinato disposto con l’art. 3 CEDU.
Conclusioni
In sede di rapide conclusioni, non si può non confrontare questa sentenza con quella – tutto sommato abbastanza recente – relativa al caso Mohammed Hussein contro Paesi Bassi e Italia (da noi esaminata qui). In quella sentenza, i giudici di Strasburgo (in quel caso era la Terza Sezione) avevano ritenuto che in Italia, benché la situazione generale e le condizioni di vita di richiedenti e titolari di protezione internazionale fossero difficili, non si fosse in presenza di un fallimento sistemico nel fornire supporto o accoglienza ai richiedenti asilo come nel caso della Grecia. Ciò, unito al fatto che l’esame della domanda di protezione internazionale della ricorrente fosse stato effettuato in tempi rapidi e che la stessa avesse avuto accesso ad un centro di accoglienza, era stato ritenuto sufficiente per considerare manifestamente infondata la doglianza della ricorrente che, a parere dei giudici, non era stata in grado di dimostrare che, una volta in Italia, non avrebbe avuto accesso alle risorse disponibili o che, in caso di necessità, le autorità italiane non sarebbero state in grado di rispondere alle sue richieste. Si noti che anche in quel caso si trattava di un nucleo familiare con minori e che proprio questa condizione aveva fatto ritenere alla Corte che la ricorrente avrebbe trovato accoglienza con priorità nello SPRAR, pur senza alcuna garanzia in proposito da parte delle autorità italiane.
Al contrario, nella sentenza che esaminiamo oggi, la Grande Chambre della Corte non fa riferimento alla necessità di “carenze sistemiche” (approccio apparentemente scelto dalla Corte di Giustizia UE nella sentenza NS, da noi analizzata qui) per aversi un divieto di rinvio.
I giudici di Strasburgo scelgono invece – a nostro avviso correttamente – un approccio (già adottato dalla Corte Suprema britannica nel caso EM, da noi analizzato qui) per cui a rilevare, considerate sia la situazione generale del Paese sia la situazione particolare dei ricorrenti, è il concreto rischio di trattamenti proibiti, anche in assenza di “carenze sistemiche”.
Nel fare questo, la Corte – a differenza di quanto fatto nel caso Mohammed Hussein contro Paesi Bassi e Italia – attribuisce un’importanza fondamentale alla presenza di minori (potremmo direi “i più vulnerabili tra i vulnerabili”) e valuta negativamente – e, va detto, severamente – la mancanza di dettagliate e (utilizzando un linguaggio molto forte) affidabili (“detailed and reliable“) informazioni da parte del governo italiano sul centro di accoglienza dove i ricorrenti sarebbero stati ospitati e sull’esistenza di condizioni di accoglienza adeguate all’età dei minori e idonee a preservare l’unità familiare.
Merita di essere letta anche l’opinione parzialmente discordante dei giudici Casadevall, Berro-Lefèvre e Jaderblom, allegata alla sentenza.
Vai alla sentenza della Corte nel caso Tarakhel c. Svizzera